mercoledì 26 giugno 2013

Francesco: la preghiera delle cinque dita

Il pollice è il dito più vicino a te. Così inizia a pregare per chi ti è più vicino. Sono le persone che più facilmente tornano nei nostri ricordi. Pregare per le persone a noi care è "un dolce obbligo".

Il dito seguente è l'indice. Prega per chi insegna, educa e medica, quindi per maestri, professori, medici e sacerdoti. Questi hanno bisogno di sostegno e saggezza affinchè possano indicare la via giusta agli altri. Non dimenticarli mai nelle tue preghiere.

Il dito seguente è il più alto. Ci fa ricordare i nostri governatori. Prega per il presidente, per i parlamentari, per gli imprenditori e per i dirigenti. Sono loro che dirigono il destino della nostra patria e che guidano l'opinione pubblica. Hanno bisogno della guida di Dio.

Il quarto dito è il dito anulare. Nonostante possa sorprendere i più, è questo il nostro dito più debole, e qualunque insegnante di pianoforte lo può confermare. Bisogna ricordarsi di pregare per i più deboli, per coloro che hanno tanti problemi da affrontare o che sono affaticati dalle malattie. Hanno bisogno delle tue preghiere di giorno e di notte. Non saranno mai troppe le preghiere per queste persone. Inoltre ci invita a pregare per i matrimoni.

E per ultimo c'è il nostro dito mignolo, il più piccolo tra tutte le dita, piccolo come bisogna sentirsi di fronte a Dio e agli altri. Come dice la Bibbia "gli ultimi saranno i primi". Il mignolo ti ricorda che devi pregare per te stesso. Solo quando avrai pregato per gli altri quattro gruppi, potrai vedere nella giusta ottica i tuoi bisogni e pregare meglio per te.

giovedì 14 marzo 2013

Francesco, il papa della strada

La Chiesa Cattolica ha un nuovo papa, Francesco, l’umile cardinale argentino Jorge Maria Bergoglio, gesuita, conosciuto ai più semplicemente come “padre Bergoglio”.
Si racconta che durante il Conclave di otto anni fa padre Bergoglio avesse ottenuto una quarantina di preferenze, uno zoccolo duro che impediva l’elezione cardinale Ratzinger, il quale non sarebbe riuscito ad arrivare alla maggioranza dei due terzi se non ci fosse stato un saggio intervento del cardinale Carlo Maria Martini, anche lui gesuita, recentemente scomparso e ancora nel cuore di tantissimi fedeli. Forse questa volta padre Bergoglio non era considerato il candidato più papabile, ma neppure si escludeva l’imprescindibilità del suo ruolo all’interno di questo conclave.  
E il suo ruolo è stato talmente imprescindibile che ieri sera si è affacciato al balcone vestito di bianco, senza la tradizionale mozzetta di velluto rosso bordata di ermellino, senza la croce d’oro, ma con una semplice, di ferro, al collo; “fratelli e sorelle, buonasera”. Si è presentato come il Vescovo di Roma, scelto “dalla fine del mondo”, che prima di benedire la sua diocesi ha bisogno di inchinarsi per ricevere la preghiera benedicente del popolo che, da buon pastore, sarà chiamato a condurre. Pater, Ave, Gloria. Le preghiere dei piccoli, le prime che ogni cristiano impara. Un vescovo che invita a pregare anche per l’altro vescovo, quello emerito, Benedetto XVI, che seguiva quel momento comodamente dalla sua residenza di Castel Gandolfo. Le poche parole commosse, che richiamano l’aspetto pastorale di vescovo di Roma, non devono essere intese come un segnale di chiusura o di non-ecumenismo, tutt’altro, devono essere lette invece come un gesto di apertura a tutti, compresi i fratelli cristiani separati, che al Papa riconoscono solamente questo titolo di servizio e non anche il primato sulla Chiesa universale. Egli ha voluto però rivendicare un primato, un solo primato per la sua diocesi, quello di “presiedere alla carità”, citando sant’Ignazio di Antiochia. Roma, se aspira ad averlo, deve farsi bambina, piccola, pura di cuore, umile e povera, facendo tesoro dell’insegnamento evangelico, condensato da don Andrea Gallo nell’espressione camminare con gli ultimi. È proprio don Gallo, che vanta il titolo indiscusso di “prete di marciapiede”, uno dei primi ad esultare per l’elezione a Sommo Pontefice di quello che potrebbe essere considerato un suo omologo latinoamericano, “el papa de la calle”, seppur di posizioni meno ortodosse e molto meno libertine in materia sessuale. La rivoluzione presumibilmente non avverrà su questo versante (anche per evitare divisioni interne), ma con ogni probabilità il suo modo di porsi lascerà il segno.
Qualcuno ha voluto risollevare alcune controversie sui suoi rapporti con il regime di Videla, con cui in realtà si trovò a trattare per salvare preti e laici durante la dittatura - come gli riconosce con gratitudine anche l’attivista Alicia Oliveira, ex Defensora del Pueblo della città di Buenos Aires - ma, nonostante tutto, ogni uomo di buona volontà ha potuto cogliere nel nuovo vescovo di Roma la genuinità delle parole e la semplicità dei gesti con cui si è posto.
La risposta alle nostre preghiere è sempre diversa da quella che ci aspetteremmo, eppure su questo versante le attese non sono state deluse: abbiamo davvero un pastore, un missionario, un papa “nero”, perché gesuita, anche se questo appellativo spetta ufficialmente al preposito generale della Compagnia Adolfo Nicolás. Un papa Francesco, come ha annunciato, emozionato, il cardinale protodiacono Tauran. I nomi che assumono i romani pontefici vogliono essere sempre significativi, evocativi, programmatici. Nelle comunità ecclesiali di base il nome Francesco circolava unicamente come un auspicio; pochi pensavano sul serio che un pontefice avrebbe avuto il “coraggio apostolico” di assumere, per primo, un peso così importante; don Paolo Farinella, prete “del dissenso”, parla di “una condanna” alla coerenza.
Proviamo ora a farci un’idea della figura di padre Bergoglio partendo da un’intervista che ha rilasciato qualche anno fa al periodico cattolico 30 Giorni, un numero che avevo conservato nella sua versione cartacea e che ieri ho potuto finalmente riprendere in mano, già spolverato. Pur essendo un dotto teologo, come possiamo apprendere dalle citazioni del De Lubac, dei padri della Chiesa e dei testi sacri, il cardinale Bergoglio lo fa sempre con discrezione. Sostiene innanzitutto che un documento teologico, seppur importante come quello conclusivo della Conferenza di Aparecida, “non si esaurisce in sé stesso, non chiude, non è l’ultimo passo, perché l’apertura finale è sulla missione”, che evita il pericolo dell’autoreferenzialità, perché “per rimanere fedeli bisogna uscire. Rimanendo fedeli si esce. Proprio se si rimane nel Signore si esce da sé stessi. Non si rimane fedeli come i tradizionalisti o i fondamentalisti, alla lettera. La fedeltà è sempre un cambiamento, un fiorire, una crescita”. Papa Francesco si colloca così nella tradizione della ecclesia semper re-formanda, non tanto nei contenuti, quanto nelle forme, nei modi e nell’atteggiamento, senza necessariamente dover cambiare la dogmatica o le posizioni in materia etica, che devono tenere sempre presente la sacra dignità della persona umana. Su questo punto il pontefice neoeletto saprà essere fermo e deciso, come in questi anni non ha esitato a indicare le cause della povertà nelle “politiche ispirate al neoliberismo che considerano i profitti e le leggi del mercato come parametri assoluti”. La Curia romana e lo IOR saranno ragionevolmente riformati e, oltre a queste barriere, nella Chiesa ce ne saranno molte altre da abbattere per poter gettare ponti ed essere “testimoni credenti e credibili”; sappiamo bene che “le nostre certezze possono diventare un muro, un carcere” e pertanto missione deve far rima con evangelizzazione, in un mondo da “interessare con le parole che noi diciamo”. Per fare ciò, padre Bergoglio ritiene che il primo passo da fare sia quello di “guardare la nostra gente non per come dovrebbe essere ma per com’è e vedere cosa è necessario. Senza previsioni e ricette ma con apertura generosa”, ricordandoci che “di per sé tutto ciò che può condurre ai cammini di Dio è buono”. Quindi ci invita ad “uscire da sé stessi”, da una coscienza isolata che “indurisce il cuore” (che sarebbe il male più grave nella Chiesa), e persino “uscire dall’orto dei propri convincimenti considerati inamovibili se questi rischiano di diventare un ostacolo, se chiudono l’orizzonte che è di Dio”. Riguardo le urgenze della Chiesa, osserva: “In questo momento si ha più bisogno di misericordia, misericordia e coraggio apostolico”, che significa “seminare la parola  e lasciare che sia lo Spirito Santo a fare il resto”. Insomma, “nella Chiesa l’armonia la fa lo Spirito Santo, lui stesso è armonia, autore al medesimo tempo della pluralità e dell’unità. Perché quando siamo noi a voler fare la diversità facciamo gli scismi e quando siamo noi a voler fare l’unità facciamo l’uniformità, l’omologazione”. Parole che, nell’ambiente ecclesiastico, suonano molto meno scontate di quanto potrebbero sembrare, specialmente se accompagnate da una modo di agire coerente con quanto si afferma.
Papa Francesco infatti è un uomo di chiesa che qualcuno ha osato addirittura definire “grillino” per la sua particolare attenzione nei confronti del popolo (parola pronunciata ieri più volte) e di “tutto ciò che [viene] dal basso”, ricercando “non tanto una sintesi, quanto piuttosto un’armonia”, per il suo prediligere i mezzi pubblici e il contatto con la gente agli onori e ai privilegi che spetterebbero ad un cardinale. Anziché risiedere nell’appartamento arcivescovile, padre Bergoglio viveva in una modesta abitazione di Buenos Aires; anziché avere scorta e limousine, egli era solito girare per le vie della sua città con i mezzi pubblici oppure a piedi. Ora che è Papa non potrà più rinunciarvi, ma da subito ha voluto alleggerire la sua scorta, pagare di tasca propria l’albergo e ha preteso un’auto meno lussuosa.
Esempio e evangelizzazione, gesti e parole che parlano al cuore del popolo.

(PZ 14 marzo 2013)